Onorevole Ministro Anna Maria Bernini,
Magnifico Rettore Prof. Massimiliano Fiorucci,
illustri docenti e rappresentanti del personale universitario, care studentesse e cari studenti, signore e signori,
sono onorato e lieto di prendere la parola in questa Università degli Studi di Roma Tre, una università dinamica sul piano scientifico, inserita in una grande città-capitale europea, che contribuisce in maniera rilevante alla riqualificazione del quadrante Centro-Sud della città. Sebbene bolognese di adozione, sono romano di origine e ho visto con partecipazione lo sviluppo impressionante di Roma Tre negli ultimi trenta anni, anniversario che state celebrando.
Dovrei parlare di pace e diritti come questione educativa. Potrei invertire i termini perché ogni questione educativa deve condurre alla pace e ai diritti, alla costruzione di una società pacifica e alle giuste tutele collettive e individuali. Per realizzare la pace c’è bisogno di formare e diffondere una cultura di pace, una “mentalità di pace”, come la definiva Maria Montessori nel suo libro
Educazione e pace, che raccoglie i testi di una serie di conferenze che la grande pedagogista tenne in Europa e nel mondo negli anni Trenta, in un periodo che portava le ferite della guerra e diventava terreno di coltura di altra violenza, caratterizzato dalla dittatura del fascismo. Disse a Bruxelles nel 1936 al Congresso europeo per la pace: “La pace è una meta che si può raggiungere soltanto attraverso l’accordo, e due sono i mezzi che conducono a questa unione pacificatrice: uno è lo sforzo immediato di risolvere senza violenza i conflitti, vale a dire di eludere le guerre; l’altro è lo sforzo prolungato di costruire stabilmente la pace tra gli uomini. Ora evitare i conflitti è opera della politica: costruire la pace è opera dell’educazione”. E questo è l’investimento necessario per una pace preventiva, individuale e collettiva.
La centralità dell’impegno educativo indispensabile a questo sogno e dovere collettivo è stata
affermata nel preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dall’Assemblea
Generale dell’ONU, il 10 dicembre 1948. Lì è indicato il compito dell’educazione ai diritti umani
come passaggio decisivo per la promozione dei diritti umani, il loro riconoscimento e rispetto,
“fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, come recita la Dichiarazione.
Ho capito la sfida dell’educazione alla pace e ai diritti nella mia attività per la risoluzione di conflitti
in Africa. Per raggiungere la pace occorre far evolvere le parti in lotta, uscendo progressivamente
da una mentalità militare per abbracciare una mentalità politica, con un linguaggio proprio,
credibile, convincente. Occorre accompagnare la trasformazione della visione dell’altro, da nemico
ad avversario con cui discutere e anche contrapporsi, imparando a conviverci, ad ammetterne
l’esistenza, fino a costruire una convivenza civile costruita per far convivere le differenze, non per
annullarle. Questo lavoro per così dire pedagogico è stato per me una sfida che mi sono trovato a
vivere sia in Mozambico che in Burundi, 16 anni di guerra civile e un milione di vittime nel primo
paese e un genocidio nel secondo, anche se più piccolo: e in quest’ultimo Paese ho potuto fare
questo lavoro di educazione e costruzione della pace al fianco di quel grande uomo di pace che
l’aveva vista e coltivata nell’inferno del carcere che è stato Nelson Mandela.

La guerra si nutre di pregiudizi, di ignoranza, di semplificazione, è prodotta e produce una
monocultura, radicata in una scia senza fine di dolori e di torti subiti, da tutti. Si tratta sempre di
liberare coscienze imprigionate dai torti subiti e dalle ragioni di questi, dal rancore e dall’odio,
incapaci di immaginare e fare pace, convinte dell’impossibilità del dialogo e del negoziato. Questo
allora portava a credere che la vittoria militare fosse l’unica unica via d’uscita. È quello che accade
anche oggi e sempre, con ogni guerra, anche oggi in Ucraina, in Yemen, in Sud Sudan e ovunque.
Serviva passare dal linguaggio della violenza, della propaganda, della criminalizzazione, della
giustizia di parte, della deformazione dell’altro, al linguaggio del dialogo, della politica. Perché in
sostanza l’alternativa alla guerra è la politica, non la soppressione dei contrasti schiacciando l’altro.
È la loro composizione attraverso il dialogo. Non c’è pace senza politica. Solo la politica crea un
quadro comune, allontana ciò che divide e trova ciò che unisce, rende più umani. E la politica sa e
può usare la diplomazia e anche i tanti modi per preparare il terreno, creare l’ambiente favorevole,
maturare le convergenze che permettono la pace.
Per questo mi ha colpito con preoccupazione come al Parlamento Europeo una Risoluzione che
sollecitava l’apertura di un negoziato sia stata rigettata da 470 voti su 630. Mi è sembrato come un
segnale della rinuncia della politica e la negazione di una pace che non sia solo la vittoria di una
parte. Attenzione, dire questo non significa ovviamente misconoscere il diritto, omologare le
responsabilità, negarle. Affatto. Sono due piani diversi e il dialogo richiede sempre la giustizia e la
chiarezza perché funzioni, perché raggiunga il risultato. Ma, appunto, anche la giustizia richiede il
dialogo. Questo è il tempo in cui un premier europeo, nella luterana Danimarca, intende abolire il
plurisecolare “Grande giorno della preghiera” – che esiste dal 1686 – per potere incrementare il
budget per gli armamenti con un giorno di lavoro in più.
Non è questa l’Europa, l’Europa che nel 2012 ha vinto il premio Nobel per la Pace per il suo “never
again”, cioè il proposito di mai più fare ricorso all’opzione militare dopo la tragedia del secondo
conflitto mondiale. Per questo dalle università, dagli studi può e deve nascere una nuova
immaginazione e antropologia di pace.
Non c’è guerra, alla fine dei conti, che non finisca perché prevalgono le parole, si avvia un negoziato
magari mentre le armi non smettono, e, alla fine, le parole che contengono anche le ragioni
dell’altro, grandi o piccolissime che siano, e magari sotto un grande peso di torti perpetrati. Le
parole esprimono sempre una cultura, e questa è una responsabilità in più per chi insegna, per chi
studia, per chi ricerca, per una università come questa. Soprattutto oggi che la questione della pace
si pone in termini più allarmanti e con conseguenze globali, fino al rischio, mai così vicino dalla crisi
di Cuba di 60 anni fa, di un Armageddon nucleare, possibile frutto degli automatismi delle reazioni
incrociate, mai interrotta da parole diverse.
La cultura della pace rispetto alla cultura della guerra appare come una scoperta recente, anche se
è un bisogno antico quanto l’uomo. La guerra infatti sembra connaturata alla storia umana anche
quando la si vuole sfuggire. “La guerra è guerra e chi non scappa lo sotterra” dicevano i fanti italiani
nella prima guerra mondiale: ma obbedivano lo stesso fino al sangue. Nella prima metà del
Novecento – e dopo molti secoli di guerre infinite – noi europei abbiamo intrattenuto una smisurata
inclinazione alla guerra.
Solo nel 1945, dopo tanti lutti e rovine, si è fatta strada una cultura della pace come cultura di massa
e non più di singole personalità intellettuali. Il rifiuto della guerra è diventato, per alcuni decenni,
quasi istintivo e generale. È diventata possibile la casa comune europea come una costruzione
nonviolenta, fondata sul valore della pace. Per Adenauer, De Gasperi, Schumann, Monnet, Spaak,
Spinelli, l’integrazione europea e la cessione almeno parziale di sovranità erano una reazione
all’orrore e alla forza devastatrice di due guerre mondiali che l’Europa stessa aveva originato, avvenute sulle stesse terre della Guerra dei Trent’Anni, della Guerra dei Cent’Anni, di quelle napoleoniche e di quella franco-tedesca.
Occorreva superare una storia infinita di torti e ragioni, e sciogliere una memoria non storica ma
patologica. L’unità europea doveva servire a superare i nazionalismi e i totalitarismi che avevano
distrutto il continente.
Occorreva voltare pagina radicalmente, facendola finita con il primato dell’una o l’altra nazione.
Occorreva riscattarsi dal passato, anche dimenticando. Un grande intellettuale come Lucien Febvre,
fondatore delle Annales, sapeva che la storia, senza essere amnesia, può essere amnistia. Scriveva
nel 1949, a rovine europee ancora ovunque: “Per vivere occorre dimenticare”. “È una necessità per
i gruppi e le società che vogliono vivere”. E aggiungeva che “la storia è un mezzo per organizzare il
passato e per impedirgli di pesare eccessivamente sulle spalle degli uomini”.
Dopo il 1945, si rifiutava una storia irrazionale, di miti della nazione, della razza, di terra e sangue,
di fatali destini, di popoli predestinati. Si superava quello che Mircea Eliade ha definito “il terrore
della storia”, quel sentimento di sventura possibile ogni momento, di invasione improvvisa, di
apocalisse in agguato. La storia non doveva più essere circolare, imprevedibile, ma lineare,
governabile. Non valevano più le parole di Nietzsche secondo cui “la storia è un incubo dal quale
vorremmo risvegliarci”, quell’incubo in cui la guerra rappresentava l’irrazionale e l’ingovernabile
della storia. Il suo contrario veniva riconosciuto nel dialogo, nel negoziato, nella politica, nel diritto.
Nell’Italia sconfitta, che aveva pagato a caro prezzo il militarismo nazionalista, il rifiuto della guerra
è stato particolarmente vivo. Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di
redigere il testo della Costituzione italiana, spiegava nel dicembre 1947 la definitiva formulazione
del suo undicesimo articolo, quello che esprime a chiare lettere il “ripudio” – una parola forte, proattiva, della guerra: “Ecco il sentimento che ci ha animati- scriveva. Si tratta[va] anzitutto di
scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La
Commissione ha ritenuto che, mentre ‘rinunzia’ presuppone, in certo modo, la rinunzia a un diritto,
il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola ‘ripudia’ ha un accento energico
e implica così la condanna come la rinuncia alla guerra”.
Uno degli estensori di questo articolo, legato a Bologna, Giuseppe Dossetti disse: “Di fronte alla
pace non possiamo essere indifferenti o neutrali”. Non neutrali, ma schierati per la pace! Abbiamo
bisogno di profeti e di politici di pace, capaci di tradurre l’aspirazione in architettura e prassi di pace.
È una sfida attuale: affermare e praticare i diritti delle persone e dei popoli, dei più deboli, di chi è
scartato, e del creato, nostra casa comune. In simili discorsi si formava la coscienza democratica
italiana. Guai quando questi diventano solo enunciazioni vuote, traditi, da chi dovrebbe difenderli
sempre e per tutti perché li piega all’interesse contingente o li sospende quando impediscono scelte
e decisioni che li contraddicono. La guerra veniva compresa come un male in sé stesso. Un male per
i vinti ma anche per i vincitori. Nessuno vince con la guerra. Come scriveva don Primo Mazzolari
all’indomani della guerra: “Non sono mai stati bene né i vinti né vincitori; anzi qualche volta sono
stati più male i vincitori dei vinti, perché avevano anche da smaltire questa tremenda illusione: che
la vittoria potesse dare il benessere. Non si costruisce il benessere sui morti, non si costruisce
l’avvenire di qualsiasi popolo sull’odio ai fratelli”. Il sogno di don Sturzo e di Primo Mazzolari è stato
quello di abolire la guerra, non come un auspicio di anime belle, ma come una necessità storica e
un grande esperto di guerra come il generale e presidente americano Eisenhower metteva in
guardia, al termine del suo mandato, dallo strapotere dei grandi gruppi produttori di armi come un
rischio mortale per la democrazia.
Ma, dicevo, questa nuova cultura della pace poggiava su una cultura della convivenza molto antica.
Quell’oblio del male di cui parlava Febvre era già stato meditato nel mondo classico.

©Siciliani-Gennari/CEI.

Oggi il ripudio della guerra e della violenza, e l’esercizio di una cultura della pace, sembrano essersi
sbiaditi, come il ricordo tragico della Seconda guerra mondiale e della Shoah che ne rappresenta la
massima ignominia e crudeltà. Non a caso, perché è durante le guerre che avvengono le peggiori
nefandezze. Come il Metz Yeghern armeno, avvenuto in un contesto bellico senza testimoni e
osservatori esterni. L’Unione Sovietica ha avuto la metà di tutte le vittime della seconda guerra
mondiale, 27 milioni su 50 (gli inglesi morti furono circa 400.000, gli statunitensi circa 300.000).
Quanto dolore! In Est Europa, dove non c’è stato nessun Adenauer, o De Gasperi, o Schumann a
sostenere politicamente una cultura della pace, lutti e rovine della seconda guerra mondiale non
hanno rimosso l’abitudine alla violenza, alle armi, allo scontro bellico. Svetlana Aleksiević, premio
Nobel per la letteratura nel 2015 ha scritto: “Io sono vissuta in un paese, dove sin da bambini ci
hanno insegnato la morte. Ci hanno insegnato ad amare le persone con le armi (…) A casa, per
strada. Per questo da noi la vita umana vale così poco. Tutto è come in guerra”. In questo clima
anche la Shoah è stata sostanzialmente accantonata nella ricostruzione storica della cosiddetta
Grande guerra patriottica, e i 30 mila ebrei di Kiev sterminati, le vittime di Babij Jar, in questa
militarizzazione delle coscienze, non hanno meritato un ricordo perché non erano vittime che
avevano combattuto e opposto resistenza.
L’università può fare molto per ripristinare una cultura della pace. È un antidoto alla cultura dei
muri e della demonizzazione dell’altro, quello che accade nelle guerre, nella risorgenza del potere
divisivo delle frontiere. Non è un caso che nella piana di Ninive la prima cosa che Daesh, l’ISIS, ha
buttato giù, con alcune chiese, sono state le scuole e che quando le suore sono tornate le scuole,
aperte a tutti, per i cristiani, gli yazidi, i musulmani, e le scuole sono state il primo pezzo della
ricostruzione. Sono molti a sostenere che l’ebraismo è sopravvissuto ai pogrom nell’Europa
orientale e centrale grazie allo studio. Lo studio apre all’alterità. Un dogmatico capace di
conversione come San Paolo, che rappresenta una parte delle radici di questa città di Roma,
scriveva di sé: “pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior
numero: mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei”. Non è la chiave del
proselitismo, ma della simpatia per l’altro. È la chiave della capacità di inculturarmi e
immedesimarmi nell’altro. È un paradigma importante per ogni scuola e università, la capacità di
includere mentre educhiamo. C’è qui anche il segreto delle antiche universitas, come in quella
ricerca comune della stagione che a cavallo del Primo Millennio vedeva Baghdad come grande
centro di vita intellettuale per le scienze e il pensiero, quando i fedeli di ogni religione, diremmo
oggi di ogni cultura, cercavano insieme la verità, contaminandosi.
E non c’è studio senza amore, perché, come diceva papa Giovanni Paolo II, un santo che ha
attraversato il millennio, le guerre, il totalitarismo e amava l’università: “Se il cuore è aperto, la
mente capisce”. Una cultura senza cuore finisce per essere una cultura che non serve agli uomini e
alle donne anche quando contiene più modernità e innovazione, perché non aiuta a ricucire il
bisogno fondamentale di ritrovare la bellezza del vivere insieme, di ricostruire un noi in società
frammentate, non guarisce dalla paura dell’altro, non offre ragioni per costruire nuove forme di
vivere “la convivialità delle differenze” – come diceva don Tonino Bello, e per aiutare noi stessi e il
mondo a pensarci e a essere senza muri, che sono il primo dogmatismo, quello che impedisce di
vedere la verità più semplice: che tu hai una faccia simile alla mia, anche quando è diversa, che
l’altro è mio fratello e mia sorella, che siamo tutti parte dell’unica famiglia umana. Se una università
non aiuta a scoprire e a costruire le basi di tutto questo fallisce il suo obiettivo.
Abbiamo bisogno di cultura e di ricerca. E che siano meno precarie! Ma anche dobbiamo riorientare
la ricerca al bene comune, affrancandola dall’ubris che la rovina perché riempie di un senso di
onnipotenza che finisce sempre per ritorcersi contro le persone e l’umanità. Una ricerca svincolata dall’etica del bene comune può inghiottire l’umanità e finisce per essere funzionale al mercato.
Universitas è termine che allude al tutto dell’universale ma anche al particolare del mettersi insieme
in una comunità. Per questo l’università propone una scienza storica condivisa, non divisiva, non
della propria fazione. È universitas quando propone il dialogo, sia delle scienze sia della vita. Perché
propone un’antropologia del pensarsi per l’altro, della crescita, della piena realizzazione di sé che è
il contrario del nichilismo. E il rispetto delle diversità intese come ricchezza. Nasce da qui quello che
è un vero diritto, lo ius pacis, che è anche un dovere, da invocare e per cui lavorare: il diritto di tutti
a comporre i conflitti senza violenza. Artigiani di pace tutti e architetti di pace alcuni. Ma se ci sono
tanti artigiani di pace – e dobbiamo esserlo tutti – da questi verranno anche architetti e quanti
sapranno trovare ordinamenti indispensabile a trovare e mantenere la pace. Altrimenti
difficilmente si impedisce alle persuasive “ragioni “della guerra di armare i cuori e le mani. Molti
sono convinti della ineluttabilità della guerra, che accompagnerà sempre il mondo, come fosse un
destino scritto nella stessa natura della persona e una storia che non può cambiare. Perché
dovrebbe essere un destino risolvere le controversie con le armi? Si è sempre fatto così? Restiamo
gli stessi? Se c’è un progresso su tutto, tanto che abbiamo realtà impensabili solo pochi anni or
sono, possibile che non ci sia un progresso che permetta di dotarsi di organizzazioni internazionali
capaci di evitare che le controversie diventino guerre? Themis, la giustizia universale, aveva tre
figlie: Irene, la Pace, Eunomia, la legalità e il buon governo e Dike, la giustizia morale, la giustizia del
diritto, quella che presiede alle leggi degli uomini. Cercare queste figlie non vuol dire preparare la
pace? La pace dipende da me. Don Zeno, profeta di pace e di giustizia nel 1950 disse: “Non potete
dire: “Viene la guerra, adesso viene, adesso viene…”. Se fosse un temporale cosa posso farci? Ma
la guerra non è un temporale. Chi fa la guerra? Se quelli che la fanno dicessero: “Va’ piano che ne
parliamo, prima, finché siamo in tempo. Dovremmo con serenità far conto di essere qui a decidere
la pace o la guerra, e ognuno di noi dovrebbe dire: “Sono proprio io che devo decidere”. Tu mangi
bene, vicino a te abita una famiglia che non ha da mangiare. Avresti piacere che uno mangiasse in
faccia a te e ai tuoi figli, e tu e i tuoi figli essere senza mangiare? Allora chiamali a tavola con te e
costruisci la pace”. Etty Hillesum scrisse: “Una pace futura potrà essere veramente tale solo se
prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, se ogni uomo sarà liberato dall’odio contro il
prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa
di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile”. Tanti
che sono stati artigiani di pace. Ne vorrei ricordare uno, romano, don Roberto Sardelli, che
all’acquedotto Felice educava e dava consapevolezza e speranza ai giovani delle baracche,
rovesciando l’individualismo in un noi corale coltivato e sorretto dalla scrittura collettiva, lavoro di
squadra che dava valore a ciascuno. La scuola offriva ai ragazzi nati senza speranza la possibilità di
riflettere e ognuno veniva responsabilizzato perché era possibile dopo potere camminare a testa
alta. Artigiano di pace perché difendeva i più deboli rendendoli consapevoli.

Vorrei allora concludere riprendendo alcune piste tracciate da Papa Francesco in visita all’Alma
Mater felsinea nel 2017. Un primo diritto cui educare – diceva – è quello alla libertà dalla paura.
Nella vita privata, la paura si esprime con la chiusura nella propria bolla esistenziale. Nella vita
pubblica, la paura ha un grande ruolo nella ricerca del consenso e non ha sempre bisogno di prove,
bastano le narrazioni. Basta pensare al tema dell’immigrazione e dei profughi, a una
rappresentazione che introduce dentro invasioni che non ci stanno, a fronte di numeri
modestissimi, a confronto con qualunque paese del terzo mondo e molti paesi europei. Mentre
sovrabbondano i dati e le ragioni razionali che mostrano come l’immigrazione sia benefica per la
nostra civiltà, la nostra economia, la nostra demografia, il nostro welfare. Solo l’accoglienza può farci riaccendere il gusto di concorrere, come dice l’articolo 4 a svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società. È curioso: siamo condizionati da troppe paure e alcune evidenze on ci
mettono paura che deve diventare scelta, consapevolezza, non dissennatezza o ottimismo
pericoloso e ignavo. La conoscenza libera tante paure, come ad esempio quella dell’Islam, nemico
per eccellenza, che rispetto a una ventina di anni fa si è attenuata.
Secondo diritto, conseguente al primo, diceva, è il diritto alla speranza in un tempo in cui è forte
una predicazione spicciola del disprezzo dell’altro, dell’aggressività facile, delle condanne
perentorie. Il diritto alla speranza presuppone una coscienza, una morale, una capacità critica, una
fede, tutti elementi così diversi dall’appiattimento sulle cattive notizie, sulle fake news, sul gossip,
su populismi irresponsabili. La speranza perché sia vera deve essere coltivata dall’educazione, dalla
conoscenza e si deve misurare con le prove della vita. Viene prodotta – sostiene san Paolo nella
Lettera ai Romani – dalla pazienza nella tribolazione e, aggiungerei più modestamente, dal senso di
responsabilità per la casa comune. “Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene – diceva
un grande europeo umanista non violento come Vaclav Havel – ma la certezza che quella cosa ha
un senso, indipendentemente da come andrà a finire”. La speranza nutre ed è nutrita dalla visione,
dal guardar lontano il tempo e non solo lo spazio, affrontando i problemi del presente ma sapendo
capire quello che li supera. In un suo intervento sulla violenza, Raymond Aron osservava: “Non vivo
senza speranza, vivo nella speranza che l’umanità trionferà non sulla violenza, giacché l’uomo è un
essere violento e probabilmente la violenza lo accompagnerà durante tutta la sua avventura, ma
penso… a una specie di placamento progressivo delle lotte estreme (…) Un giorno, l’umanità meno
divisa dalle ineguaglianze attenuerà le ideologie e le idolatrie…”.
Terzo diritto è quello alla cultura. L’università apre – dicevo – all’universale, a conoscere il mondo
intero, a uscire dal provincialismo e dal pettegolezzo etnico, da un locale ridotto a isolamento
perché on si apre all’universale. Siamo atterriti dalla guerra in Ucraina i cui lutti, innegabili,
sembrano il più grande scandalo del nostro tempo. Ma una cultura universale ricorderà altre
tragedie contemporanee, dalle proporzioni ignorate. La crisi del Tigrai, ad esempio, secondo le
ultime valutazioni, avrebbe prodotto 600.000 morti la gran parte civili, una strage. Trent’anni di
guerra in Congo hanno prodotto tre milioni di morti, fra l’una e l’altra regione investita dalla
violenza in questo Stato immenso. Ogni vittima dell’odio altrui merita rispetto, ma le attenzioni che
rivolgiamo alle crisi internazionali sono talora più funzionali alle nostre politiche che alle loro
oggettive dimensioni. Naturalmente diritto alla cultura significa molto di più. Ma vorrei dire almeno
che c’è bisogno di una sapienza, che faccia aspirare a cose alte, che aiuti a tirar fuori il meglio
dall’altro e da sé stessi. E, infine, occorre educare al diritto – e al dovere – alla pace.
Il tema dell’educazione alla pace si colloca quindi nel cuore dell’impegno scientifico, culturale e
didattico dell’università. Possiamo dire che la pace e i diritti umani siano sempre più la cifra
riconosciuta di una cultura e di una educazione che sanno guardare l’humanum e pensare un futuro
comune per il mondo e per l’umanità. Edgar Morin nel 1999, nel suo manifesto I sette saperi
necessari all’educazione del futuro, richiamava al compito di educare alla comprensione umana, in
cui – notava – si ritrova “la missione propriamente spirituale dell’educazione: insegnare la
comprensione fra gli umani è la condizione e la garanzia della solidarietà intellettuale e morale
dell’umanità”.
Mi sembra una indicazione importante per una riflessione sull’educazione alla pace. Questa infatti
deve radicarsi in una cultura dell’alterità, che faccia della comprensione umana dell’altro, dei tanti
altri a contatto dei quali, non sempre in modo immediatamente pacifico, le donne e gli uomini del
nostro tempo sono costantemente proiettati. Occorre infatti superare, per dirla con le parole di papa Francesco nell’Enciclica Fratelli tutti, “la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i
muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra
gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito,
senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità”. Per questo ci vuole empatia, ma ci vuole anche
cultura, cioè conoscenza dell’altro, ci vuole un recupero della missione nobile e allo stesso tempo
vitale che l’educazione svolge nella società dalla scuola all’università. Educare alla pace è quindi
aprire le menti e i cuori all’incontro con l’altro, al dialogo, alla relazione che è fatta di comprensione.
Morin ne ricavava proprio la necessità di studiare l’incomprensione “nelle sue radici, nelle sue
modalità e nei suoi effetti…Tale studio sarebbe tanto più importante in quanto verterebbe non sui
sintomi, ma sulle radici dei razzismi, delle xenofobie, delle forme di disprezzo. Costituirebbe allo
stesso tempo una delle basi più sicure dell’educazione alla pace”. La mia piccola Lettera alla
Costituzione dà spazio all’art.11 che ho già citato. Sarebbe bello esistesse una Costituzione europea
con qualcosa di simile al nostro articolo 11, anche perché le guerre non finiscono mai solo con la
firma degli armistizi e dolori e ferite durano più a lungo. Ma cominciano sempre, come sapeva
Kapuscinski, con “l’interrompersi della comunicazione tra gli uomini”. Penso allora che il mondo di
oggi ha bisogno di immaginazione e audacia culturale ed evangelica. Perché mi sembra, di fronte
alla guerra, che assomiglia molto a quell’uomo paralizzato della pagina del Vangelo (Lc. 5, 17-26)
che non riusciva a muoversi, ma che alcuni sollevano per portarlo davanti a Gesù. E non potendo
raggiungerlo, per la folla che si accalcava, lo calano dal tetto con il suo letto e lo mettono davanti a
Gesù perché lo guarisca. Chi sono quegli uomini, quelle donne che diventano le braccia e le gambe
di quel paralitico al punto da chiedere con il loro gesto una guarigione impossibile? È un gesto che
colpisce Gesù stesso, che risponde allo scetticismo degli scribi e dei farisei, scandalizzati che possa
esserci un pensiero nuovo, e non solo perdona i peccati di quell’uomo, ma lo guarisce pienamente.
Quegli uomini penso che possiamo essere noi, i giovani universitari, chi lavora all’università, chi
insegna. L’università può contribuire a sciogliere la malattia che paralizza le nostre società e
impedisce di sognare, vedere, costruire con immaginazione la pace e una nuova convivenza, più
umana tra tutti, e tra i popoli. Non c’è una materia che si chiami “umanizzazione”, ma attraversa
tutto il sapere e tutta la ricerca. È proprio questo, mi sembra, il compito che sta davanti a noi.