È necessario valorizzare la partecipazione, la cooperazione, l’impegno.

Gli eventi degli ultimi mesi, dalla diffusione della pandemia alla tanto attesa ripartenza, come le recenti crisi della storia dell’umanità, hanno avuto l’effetto di mettere in luce non solo le vulnerabilità del nostro modello di sviluppo, ma anche le possibilità inedite dell’attuale congiuntura storica. Se prendiamo per buona la tesi secondo la quale ogni crisi (dal greco krinw che vuol dire separare, dividere, giudicare, discernere) svela anche nuove opportunità, è abbastanza facile rendersi conto che questo passaggio storico ha molto da insegnarci. La prima consapevolezza emersa, lo abbiamo sentito ripetere più volte in questi mesi, è che la pandemia ci ha fatto comprendere il livello di interdipendenza raggiunto tra gli uomini nel mondo globalizzato. Mai come in questo momento abbiamo intuito che le nostre vite dipendono da quelle degli altri e che le nostre scelte hanno sempre e comunque degli effetti su tutti, non solo nel nostro quartiere o nella nostra cittadina, ma in un orizzonte fino a ieri inimmaginabile. Sembra che l’idea dell’unità della “famiglia umana”, molto frequente nel magistero sociale dei pontefici, abbia acquistato con la globalizzazione una sorprendente concretezza e che lo stesso principio del bene comune non possa che essere declinato in un orizzonte universale. Infatti la pandemia ci ha fatto capire innanzitutto che la salute è un bene globale e pertanto indivisibile, cosicché quel virus che chiamavamo ingenuamente “cinese”, quasi a volerlo esorcizzare per auto-convincerci che fosse un problema di altri, oggi scopriamo che circolava nel nostro paese in tempi non sospetti. Nel mondo globalizzato non esistono “i problemi degli altri”, ma tutto quello che succede ci riguarda più o meno direttamente, perché i fenomeni e gli eventi non conoscono confini. Se è evidente, come afferma papa Francesco nella Laudato si’, che nella nostra casa comune “tutto è connesso” (LS 117), non si può pretendere che le condotte individuali non abbiano un riflesso nella vita degli altri, perché sarebbe semplicemente insostenibile. Dall’osservanza delle regole di distanziamento sociale, all’igiene frequente delle mani, passando per l’uso intelligente della mascherina, le nostre azioni rappresentano quella piccola ma preziosissima parte che siamo chiamati a fare per combattere un nemico comune, dal quale non ci si salva da soli.operai-coronavirus-mascherine-120752-660x368
In questi mesi ci siamo difesi dalla minaccia “a mani nude” con il distanziamento sociale, uno strumento definito “rozzo e medievale” da alcuni, ma che ha mostrato la sua efficacia ed ha rimesso in luce l’importanza di agire come un corpo unico, coeso, solidale e ben coordinato. Insomma, questo pericolo ha fatto riemergere l’importanza della “comunità politica” e il valore incommensurabile della società. “Ogni società degna di tal nome, può ritenersi nella verità quando ogni suo membro, grazie alla propria capacità di conoscere il bene lo persegue per sé e per gli altri. È per amore del proprio e dell’altrui bene che ci si unisce in gruppi stabili, aventi come fine il raggiungimento di un bene comune. Anche le varie società devono entrare in relazioni di solidarietà, di comunicazione e di collaborazione, a servizio dell’uomo e del bene comune” (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 150). La sfida che oggi si apre di fronte a noi è quella di affermare la cultura del dono contro quella dell’egoismo, la costruzione di un’etica globale contro la logica del “si salvi chi può”, il ritorno della “centralità della politica nella sua funzione di autorità che si prende cura di ciò che non può essere affidato ad altre istanze sociali e che a questo scopo utilizza il potere”. Questo però richiede da parte nostra uno sguardo nuovo, intelligente e non superficiale sul presente. La presunzione di aver riconquistato la normalità che si respira oggi passeggiando per le nostre strade, se da una parte rappresenta un collettivo atto liberatorio, dopo mesi di costrizione domestica, dall’altra può aprire uno squarcio profondo nel cuore di chi, ha subito la perdita di persone care, o di quei medici che per mesi si sono isolati dai propri figli e hanno messo a rischio la propria vita per salvaguardare e proteggere quella di coloro che oggi si comportano come se il nemico non esistesse più. In un momento in cui non esistono ricette facili e le scelte da prendere devono avere la prospettiva del lungo termine, è necessario valorizzare la partecipazione, la cooperazione, l’impegno, mentre risulterebbe intollerabile l’opportunismo politico, motivato dalle fibrillazioni da campagna elettorale, di chi rimanda a domani lo scotto di scelte impopolari. Abbiamo bisogno di una classe politica onesta, la quale ci dica che i sacrifici non sono finiti e che anzi, dopo le ferie, comincerà il momento più delicato nel quale si giocherà la partita della reazione economica e sociale agli effetti distruttivi della pandemia. Pertanto piuttosto che invocare il ritorno alla normalità dovremmo cogliere l’occasione per eliminare le storture del nostro modello di sviluppo e affrontare le sfide che la pandemia ci impone. Perché se ci sarà una normalità da riconquistare, certamente non potrà essere quella che ci siamo lasciati irrimediabilmente alle spalle.
In una recente intervista Giuliano Amato sosteneva che i grandi cambiamenti innescati dalla pandemia hanno messo in circolazione un’attitudine necessaria, quella della resilienza. “Resilienza è capacità di resistere, è attrezzarsi per resistere. Ma diviene resistenza inutile se pretende di mantenere le cose così come sono”. C’è bisogno pertanto di una resilienza “trasformativa”, cioè capace di cambiare il presente per renderlo meno vulnerabile alla minaccia in corso e a quelle che verranno. È il tempo del cambiamento responsabile che non può ignorare le esigenze emerse con ancora più evidenza in questi ultimi mesi: una governance dei fenomeni globali, il rafforzamento della sanità pubblica e della medicina del territorio, la trasparenza nell’informazione, la cura per il creato, l’innovazione, lo sviluppo sostenibile, la transizione energetica, la lotta alle disuguaglianze, lo sviluppo digitale. Queste sono solo alcune delle vie da percorrere perché l’umanità possa superare l’incubo del COVID-19 e rimettersi in cammino imparando a vivere in maniera più solidale e fraterna.
La comunità cristiana, che in questi mesi sta facendo la sua parte garantendo il sostegno a migliaia di famiglie in difficoltà, attraverso le Caritas parrocchiali e l’impiego dei fondi derivanti dall’8Xmille, ha il dovere di continuare ad essere voce profetica attenta al grido dei poveri e della terra. La Chiesa può mettere a disposizione della società il suo patrimonio di speranza e il suo capitale di umanità per aiutare gli uomini di oggi a leggere i “segni dei tempi” e riconoscere il volto del Dio di Gesù Cristo che porta avanti la storia della salvezza.

 

don Giuseppe Laterza

 

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